NOTE:
(1) Mi riferisco in particolare all’ intervista a cura di Alexandra Wolframm apparsa su Artkey n.2, dicembre 2007.

 

In alcune dichiarazioni preliminari a questa quinta edizione della Biennale di Berlino (1), i curatori Adam Szymczyk ed Elena Filipovic evidenziano, orgogliosi, la grande “apertura” (nonché lungimiranza!?) delle loro scelte, che non si misurano su cliché predeterminati, né si piegano ai pesanti condizionamenti di un mercato feroce.

L’intento, dichiarano, è quello di effettuare una libera selezione di opere altrettanto libere, non sottoposte cioè al dominio di uno specifico macrogenere di riferimento e pertanto svincolate da qualsivoglia appartenenza a movimenti o tendenze acclamati.
Questa la promessa.
Verrà presentata un’arte giovane e impegnata. Gli artisti avranno provenienze generazionali e geografiche diverse. Le proposte saranno diversificate. Predominante sarà l’attenzione prestata alla creatività individuale del singolo autore.
Questa la promessa.

Emerge, quale fondamentale prerogativa del progetto, l’urgenza di creare le condizioni per una fruizione piena e appagante dell’opera d’arte, in virtù dell’intrinseco valore che la stessa possiede. Dunque: la centralità dell’opera, il suo significato, il messaggio che veicola e lo scambio intellettuale privilegiato che essa è in grado di intrattenere col riguardante, risultano essere i requisiti di base e, al contempo, i parametri stessi su cui si fonda l’attenta selezione dei due volenterosi curatori.
E ancora, questa la promessa, che per la determinazione con cui viene annunciata, coinvolge e convince sino a dar vita ad aspettative che inevitabilmente si costituiscono della stessa materia di cui sono create: ottimistiche, open minded e pretenziose, esse nascono già tradite dalle premesse/promesse un po’ truffaldine che le hanno generate.
Niente condizionamenti esterni, niente riferimenti comuni, nessuna costrizione all’interno di categorie precostituite. Alcun rimando, neppure, tra i lavori, ognuno dei quali sembra appartenere a universi immaginali e semantici lontani e non comunicanti. Opere libere e “sganciate”, fluttuanti satelliti vagabondi, persi in un spazio del quale non influenzano, nella benché minima misura, gli assetti e le sorti.
Così Szymczyk e Filipovic, rimanendo fedeli alla parola data, paradossalmente disattendono, in maniera esemplare, proprio quelle aspettative scaturite da una promessa che mantengono in pieno!
Bene, davvero! Bravi! Trappola ben congeniata! Performance perfettamente riuscita!
E, al buon esito di tutto ciò, noi abbiamo contribuito largamente. Concorso di colpa.
Del resto, quando le cose non imprimono ombre, è difficile sbagliarsi. Quando tutto è chiaro, sin dall’inizio, sin dalle premesse, nessuno potrà mai dire “Non ce l’avevano detto”. E sì perché loro l’hanno detto. Più chiaro di così, come avrebbero potuto? Ci avevano avvisati. Ricordate?
Non avevano forse parlato di opere libere da asservimenti al sistema, ognuna col proprio specifico significato, che non dovesse necessariamente ricondursi alle altre presenti? Non avevano dichiarato di non essere influenzati dal mercato ma che poi, in fin dei conti, il mercato è una condizione dalla quale non si può prescindere? Non ci avevano spiegato che altri sono i luoghi in cui si decide una linea espositiva con precise poetiche di riferimento, atte a delineare tendenze più generali e percorsi più ampi? Ricordate?
Loro, coerenti, ci hanno propinato diligentemente ciò che avevano preannunciato.
Promessa mantenuta.
E noi, tornati amareggiati dalla nostra gita fuori porta, cosa abbiamo da recriminare? Che cosa ci aspettavamo? Quando le cose non imprimono ombre non ci si dovrebbe sbagliare. È tutto talmente chiaro! Perché prendersela?
Ok, c’è modo e modo. Concesso. Effettivamente ci avevano informati, ma una cosa sono le premesse e gli obbiettivi, tutt’altra cosa sono le modalità attraverso cui concretizzare un progetto, delineandone forme e sembianze. Tra il dire e il fare…
Ed è proprio qui, tra il dire e il fare, che si sono interposte le nostre ottimistiche inferenze!
Ma è questo il giochino, no? Semplicissimo ma geniale. Semplicemente geniale. Se così non fosse, ammettiamolo, non ci saremmo rimasti così.
Delusi.

Il grande baraccone di Berlino incarna in modo esemplare la confusione e l’incertezza che avvolgono l’odierno sistema dell’arte: ne è probabilmente la perfetta riproduzione in scala.
Quel chiarore che ci promettono già nel titolo sarà, penso, il tentativo, rivelatosi fallimentare, di opporsi al buio in cui brancoliamo?
Chiarore d’intenti, poi disattesi.
Quel chiarore (proiettato sulle cose o da esse emanato?), tanto netto e ripulito, abbacinante a tal punto da coincidere negli esiti proprio con quelle stesse tenebre alle quali si vorrebbe opporre, non sarà forse la causa (o conseguenza?) di quella incapacità/impossibilità di una visione d’insieme lucida e consapevole sul panorama dell’arte contemporanea?
Chiarore paradossale, che elude la comprensione.
Vorrei poter sostenere il contrario. Vorrei poter dire che, no, la chiarezza, senz’ombra né macchia, delle opere, degli intenti, delle dinamiche, del sistema è indiscutibile, e che altrettanto limpido può essere il nostro sguardo su di essi. Ma così non è.
Vorrei poter affermare con certezza che tutto ciò che dico sin qui corrisponde al vero, e cioè che il bel tranello che ci hanno teso è studiato, voluto e riuscito. Per lo meno tutto questo avrebbe un senso su cui meditare e qualcosa da insegnare.
Posso invece limitarmi a raccontare come è andata e a suggerire un perché, augurandomi che un ragionamento ponderato su ciò che non va e che non ci piace possa funzionare, non come sterile recriminazione fine a se stessa, bensì come momento di riflessione su certe pratiche e modalità della cura critica, dalla definizione di un chiaro progetto intellettuale alla realizzazione di un prodotto coerente con le premesse, passando attraverso un’accurata, consapevole selezione delle opere sino a una responsabile organizzazione dei materiali.

Poco dirò sulle opere e sui luoghi: è comunque necessario vedere e decidere per sé.
Scenografica Paola Pivi, alla Neue Nationalgalerie, con la sua enorme griglia-impalcatura tempestata di sgargianti applicazioni multicolori. Opera che cito perché mi pare racchiudere in sé la tendenza generale e le somme definitive della kermesse: il titolo suona più o meno così: Se non vi piace, mi spiace. Ad ogni modo divertitevi. D’accordo la leggerezza e il sense of humor, ma tutto dipende sempre dal contesto: in questo caso specifico ci si può sentire, mi pare a buon diritto, presi per i fondelli. Elaborata l’installazione di Nashashibi/Skaer che mescola video, sculture in terracotta, fotografia, tavole e frammenti di pavimentazione in plexiglas in un complicato gioco di rimandi tra storia, tradizione, sesso e religiosità attraverso un’ossessiva ripetizione degli elementi, a restituire un senso di soffocante oppressione.

Al KW Institute for Contemporary Art si esprime al meglio lo spirito disorganico e incoerente della Biennale. Questa sede ospita infatti la maggior parte dei lavori, suddivisi irrazionalmente tra i cinque piani della struttura. Qui il norvegese Pushwagner con SoftCity (1969-1975) – alla faccia delle nuove proposte – è vicino di stanza di una Piscitelli che comunica poco e confusamente. Entrambi si affacciano sull’enorme spazio vuoto e scuro dell’asfalto di Ahmet Ögüt che, silente e odoroso, tocca i sensi e commuove per il solo suo esserci. Poetica Katerina Seda col suo lavoro sul recupero di una memoria dell’infanzia. Vibrante l’ambientazione della soffitta/sottotetto di Tris Vonna-Michell, in cui videoproiettori sparsi all’interno di un antro caldo e rassicurante narrano storie di un tempo lontano. Offensiva, invece, la scelta di inserire il lavoro di Kohei Yoshiyuki (1979). Una serie di fotografie che testimoniano, squallide, scene di squallido sesso a pagamento tra squallidi individui. Senza fantasia. Senza fervore. Senza motivo. Fosse almeno nel novero delle cose mai viste…

Più felice la scelta di nascondere le opere tra la terra brulla, le erbacce e i sassi dello Skulpturenpark Berlin Zentrum, spazio perduto sul quale prima s’innalzava una parte del Muro. L’idea di spazio espositivo “altro”, o meglio di luogo in cui ospitare opere site-specific, non è nuova ma di sicuro vincente: la caccia al tesoro è stimolante. Qualcosa passa inosservato, ma ogni tanto una sorpresa si scova. La fermata del bus di Pedro Barateiro, fornita di libretti, “pausa rigenerante in mezzo a una giornata di duro lavoro”, restituisce il senso di piccole grandi storie, frammenti di esistenze reali o immaginate, transiti e fermate, pensieri che s’annidano nella pausa sospensiva e solipsistica dell’attesa.

Curiosa e interessante è la narrazione di Lars Laumann che propone la storia d’amore tra una donna e il Muro di Berlino: riflessione intensa e ben strutturata (anche se molto reportage) intorno all’umana necessità di possesso delle cose, all’incapacità di rinunciare ad esse, alle conseguenze della perdita e alla difficoltà dell’elaborazione del lutto.
Se i singoli lavori vanno a disegnare un tutto disorganico e sconnesso che lascia l’amaro in bocca, consoliamoci pensando che, nella confusione del folle cortocircuito di intenti, promesse, congetture e aspettative disattese, è possibile ancora rintracciare l’Opera.
Forse, allora, sarebbe il caso di ridefinire il ruolo di colui che è chiamato a gestirla; non vorremmo trovarci a rimpiangere le cose passate! Meglio un atteggiamento responsabile e uno sguardo fiducioso su ciò che già c’è e su quanto ancora deve venire.

Dall’alto:

Nashashibi/Skaer, Pygmalion, 2008, installazione, 16mm film, colore, senza sonoro, loop; tavoli, sculture in terracotta, stampe; drappo, 8 x 10 m; pavimento in perspex, 4 x 5 m, dimensioni variabili. Dettaglio.

Nashashibi/Skaer, Pygmalion, 2008, installazione, 16mm film, colore, senza sonoro, loop; tavoli, sculture in terracotta, stampe; drappo, 8 x 10 m; pavimento in perspex, 4 x 5 m, dimensioni variabili. Dettaglio.

Katerina Seda, Over and over, 2008, installazione, mixed media, dimensioni variabili.

Paola Pivi, If you like it, thank you. If you don’t like it, I am sorry. Enjoy anyway, 2007, alluminio, fibra di vetro, strass, 520 * 1427 * 27 cm.

Paola Pivi, If you like it, thank you. If you don’t like it, I am sorry. Enjoy anyway, 2007, alluminio, fibra di vetro, strass, 520 * 1427 * 27 cm. Dettaglio.